WE ARE NOT GOING BACK
(Il 30 di agosto, tra Menton e Ventimiglia)
Il 30 di agosto sono stato preso per il collo da un poliziotto francese sul confine franco-italiano di ponte s. Luigi, mentre dalla cittadina francese di Menton cercavo di rientrare in Italia. Nonostante questo, io, non il poliziotto, sono finito in prigione per due giorni e una notte, ho subito un processo per direttissima (poi rinviato al 12 ottobre) e sono accusato di oltraggio e ribellione.
Passavo insieme ad alcuni compagni davanti ai container dove i poliziotti francesi detengono i migranti che tentano di passare il confine per chiedere asilo in Francia o per continuare il loro viaggio verso l’Inghilterra. E’ qui che avvengono le deportazioni dalla Francia verso l’Italia. Deportazioni arbitrarie, basate sul sospetto che il migrante intercettato dalla polizia francese sia passato per l’Italia prima di arrivare in Francia. Prove allora diventano i biglietti dei treni, gli scontrini scritti in italiano trovati in tasca, magliette o indumenti con le scritte in italiano. Pochissimi scampano alle deportazioni, praticamente solo i minorenni.
Due migranti sono fuori dai container. Mi viene spontaneo gridare un saluto in arabo. E grido: “Kull ishi taman? (Tutto bene?)”. Uno di loro alza in aria il pollice. E’ l’unico ricordo calmo che ho di quel giorno, poi tutto si fa concitato e assurdo. Più di quattro poliziotti francesi, infatti, escono correndo dalla stazione di polizia del confine e ci inseguono.
Da qui comincia la storia assurda per cui vengo accusato di aver spinto via un poliziotto e di averlo insultato (chiamandolo “testa di cazzo di merda”), cose che non ho fatto. Sono invece io ad aver subito percosse (per le quali ho una prognosi di 7 giorni) dal poliziotto stesso che mi accusa.
Eppure è impossibile dimostrare questo mentre una poliziotta mi interroga durante il mio fermo (il mio fermo durerà 24 ore, poi verrò condotto al Palazzo di Giustizia di Nizza, dato che il Procuratore Generale ha deciso che dovrò subire un processo per direttissima. Un totale di 33 ore di detenzione, solo perché ho chiesto a due migranti se stavano bene). Tre poliziotti sostengono con la loro testimonianza l’accusa. Il mio avvocato di ufficio si mette in un angolo mentre mi interrogano e non parla. Io cerco di spiegare cosa è successo, ma vengo deriso e viene sottolineata ogni minima contraddizione del mio racconto. Mi sento piccolo di fronte al sistema che cerca di schiacciarmi.
Eppure i compagni e la mia famiglia non mollano. Trovano un avvocato in gamba che accetta di seguirmi e da qui è tutta un’altra storia. Vengo liberato, con processo rinviato al 12 ottobre. Mi dicono che il massimo della pena per i reati di cui sono accusato è 5 anni di detenzione.
Il Procuratore Generale ci tiene a precisare che ha voluto per me il processo per direttissima perché il reato che ho commesso ha scosso in modo particolare l’opinione pubblica. E io ripeto di fronte a lui che ho solo chiesto a due migranti se stavano bene e che per questo sono stato preso per il collo da un poliziotto francese.
Al primo interrogatorio mi hanno chiesto: “Perché li incitate alla ribellione?”. Io ho risposto stupito che avevo solo chiesto se stavano bene. Adesso mi accorgo che forse chi mi interrogava aveva ragione. E’ rivoluzionario quel minimo di solidarietà che riusciamo a portare ai migranti detenuti al confine. E’ rivoluzionario quel costante interessarci a loro. Perché il sistema non vuole altro che ci chiudiamo nei nostri confini.
Il “No Border” che gridiamo ogni notte quando battiamo sulle barriere vicine alla frontiera è realmente rivoluzionario. Racconta un modo diverso di vivere, un modo in cui le regole non le dettano più i potenti, ma chi ha sofferto di più. E’ la debolezza coercitiva di chi ha avuto talmente tanto dolore nella vita che il dolore che seguirà è nulla e per questo quindi è disposto a tutto.
E infatti non sono io ad essere un ribelle, non sono io ad essere rivoluzionario. Il 30 di agosto sono finito in prigione non perché il sistema ha paura di me. Il sistema ha paura di loro, dei migranti che urlano “Non torneremo indietro/ We are not going back”.
Perché l’acqua l’insegna la sete e il sistema ha paura di chi ha sete. Una sera un migrante, mentre cercavamo, impauriti dalla forte repressione degli ultimi tempi, di preparare una manifestazione, si è alzato in piedi e ha detto: “Non capisco quale sia la vostra paura. Dopo quattro giorni in mare sul barcone, io non ho più paura.”
In questa bolla di Ventimiglia imparo di nuovo ad ascoltare le persone giuste, cioè quelle che hanno sete. E queste persone urlano che non torneranno indietro, urlano: “Nessun confine, nessuna nazione, nessuna deportazione”. Eccola l’acqua, è questa sete.
A. C. e tutti i compagni
del presidio No Border di Ventimiglia